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19 novembre 2012, 12:36
What We Lost? | Salamander Saga
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What We Lost? | Salamander Saga

Gli shoot em’up sono un genere sempiterno, anche dopo decadi dalla loro uscita, grazie a un gameplay mai ridondante e un livello di sfida diabolico. Tra la terza e la quarta generazione ne sono usciti a bizzeffe, ma solo alcuni entrati nella storia. Tra questi, uno dei più celebri fu sicuramente Gradius, icona da cui sono stati tratti numerosi seguiti e spin-off. Il protagonista del WWL? di oggi è proprio un rappresentante dell’ultima categoria. Prodotto dalla stessa Konami che realizzò Gradius, a cui si ispira ma che allo stesso tempo ispirò diversi elementi dei suoi successori, Salamander nasce nel lontano 1986 in formato arcade, per poi essere convertito per il mercato di dozzine di piattaforme. Ciononostante, al di fuori del Giappone la saga è praticamente sconosciuta, eppure il cabinato originale e la versione NES sono arrivati persino in Europa. Il brand ha dato vita solo a due capitoli (entrambi presenti nell’articolo odierno, tranquilli ndr), attraversando le ere videoludiche e mutando leggermente ad ogni sua incarnazione, un’epopea di cui i giocatori nostrani conoscono giusto l’inizio. Tempo di rimediare, con WWL?

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MA DOV’E’ ‘STA SALAMANDRA!?

Salamander, nella sua anima arcade, proponeva una formula di gioco e uno stile molto simili al fratellastro Gradius, differenziandosi essenzialmente nel sistema adottato per l’acquisizione dei power-up, istantanei e lineari anziché “a slot”, e nell’alternanza di scroll orizzontale e verticale, novità assoluta nel campo degli sparatutto. Fondali bui, suoni acidi, difficoltà elevata, perdita di tutti i potenziamenti dopo ogni morte (salvo i pod che scorrono mestamente verso il bordo dello schermo) e l’assenza di continua lo resero un titolo davvero arduo da portare a termine, coinvolgente e frustrante al punto giusto, un vero gioiello.  Fu inoltre uno dei primi cabinati a ospitare la cooperativa per due giocatori, ma il gioco, ovviamente, da il meglio di sé in solitaria. Pareti che si chiudono al passaggio, lingue di fuoco a tradimento, nemici rapidi e numerosi, pochi ma fastidiosi proiettili, anche con l’arsenale al completo senza conoscere a fondo ogni istanza dei livelli sopravvivere è praticamente impossibile. Paradossalmente sono i boss gli ostacoli più semplici da buttare giù (i  primi almeno), ma arrivare a loro è ben altro paio di maniche. Le versioni giapponese ed europea sono pressoché identiche, mentre per quella americana furono adottati diversi accorgimenti per dare al tutto un tocco di personalità in più. In primis il gioco prese il nome Life Force, e alle schermate d’inizializzazione ne fu stata aggiunta un’altra di testo, in cui veniva descritta la trama, ambientata all’interno di un immenso organismo alieno, infetto da nugoli di batteri. Per tener fede all’incipit, background e sprite vennero ritoccati per dargli un look più organico, quasi grottesco, inoltre vennero modificate le diciture dei power-up, mentre una voce esterna (vagamente familiare) illustrava l’area e gli obiettivi prioritari da completare. Qualche tempo dopo venne rilasciata un’edizione potenziata di Salamander in Giappone, che enfatizzò ulteriormente i temi di Life Force e introdusse la power bar vista in Gradius.

La prima conversione fu sviluppata nel 1987, su Famicom (esatto, il NES giapponese), che eliminò alcuni stage e boss in favore di nuovi elementi, come la presenza di più finali, feature poi misteriosamente soppressa nella controparte occidentale. In entrambe era comunque possibile utilizzare il famigerato Codice Konami, che elevava istantaneamente il numero di vite a 30, mica male se si considera che partono come nulla. Un anno dopo toccò ad Amstrad, Spectrum e Commodore: minimali e claustrofobiche i primi due, acclamata dalla critica l’ultimo, considerato uno dei migliori porting usciti per il sistema, nonostante mancassero due stage e il livello di difficoltà si rivelò generalmente più basso. Singolare fu invece la release MSX, profondamente alterata rispetto alle altre versioni: piloti, astronavi e location godevano ora di un nome, i livelli erano sensibilmente più lunghi rispetto all’originale, e frammentati da checkpoint, punto di respawn dopo ogni sconfitta (frustrante nei segmenti più ostici), le capsule E permettevano dopo 15 pick-up di mantenere permanentemente un power-up, dopo il secondo stage ai giocatori era lasciata la libertà di scegliere l’ordine dei successivi tre, e per finire, durante le sessioni multiplayer, le due navicelle potevano fondersi, lasciando le manovre a una persona e le armi all’altra. Chiude il ciclo “old-school” l’edizione PC Engine (alias TurboGrafx), che includeva animazioni e bgm superiori a quella arcade.

Più recentemente Salamander ha messo piede anche su Playstation e Saturn, nel Salamander Deluxe Pack Plus, assieme a Salamander 2 e Life Force, telefoni cellulari, con un porting sorprendentemente fedele all’originale, PSP, in Salamander Portable, che espanse l’offerta del Deluxe Pack con Xexex e Nemesis 2 (noto anche come Gradius 2, spin-off privo di legami con il Gradius II ufficiale), iOS, come contenuto dall’app PC Engine Game Box, e infine la Virtual Console del Wii, su cui ritroviamo le versioni NES, MSX e PC Engine. In Giappone praticamente l’unico modo per non provare il titolo è non avere una console, e sappiamo tutti che è altamente improbabile.

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RITORNO ALLE ORIGINI

Risalente al 1996, Salamander 2 non ha avuto “l’onore” di essere sballottato da un sistema all’altro come il suo predecessore. Tolte infatti le collection su console Sony, il titolo Konami non è mai uscito dal suo cabinato, tanto meno dal suolo nipponico, una preda sfuggevole insomma. Le meccaniche sono grossomodo le medesime del Salamander originale, a cui venne implementato un sistema di lancio dei pod come arma d’occasione e una loro versione minore, che gravita intorno alla nave anziché seguirne gli spostamenti. Allo stesso tempo, facendo leva sulla maggiore potenza di calcolo, spinge dal punto di vista immaginifico per  dare maggior lustro al design suggestivo di Life Force, pur non mancando di elargire vivaci sparatorie nello spazio aperto tra incrociatori e asteroidi alla deriva. I fondali 3D, uniti a sprite egregiamente caratterizzati e animati, hanno permesso la realizzazione di scenari vasti, vibranti di vita (biologica o meno), un tripudio di colori ed effetti speciali che scorrono senza incertezza sullo schermo. Ovviamente anche il livello di difficoltà non sembra aver perso smalto, regalando 6 brevi ma intensi scorci di inferno, nel complesso però più accessibili rispetto al primo capitolo, merito del supporto “lamer” dei continua e dell’assenza dei tediosi check point. Poco importa, visto che una volta terminata la campagna sarà possibile rigiocarla immediatamente a un livello di difficoltà superiore (sono 8 in tutto, e quello di default è il 4, fatevi un pò di conti…). Ultima chicca: le bmg sono in gran parte remix del prequel: lo avevate notato?

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IN CONCLUSIONE

Una grande coppia di sparatutto, molto simile al filone principale di Gradius, ma non per questo indegna di ergersi al suo fianco, che meriterebbe dopo tanti anni un bel seguito, anche solo per saggiarne le potenzialità con le tecnologie più recenti. Per ogni fan del genere è un binomio da riscoprire assolutamente, un pò meno per i giocatori che non amano essere brutalmente malmenati da vermoni cosmici. Al momento la versione più facilmente reperibile è quella per MAME, l’emulatore di arcade per eccellenza, legale e soprattutto gratuito, ma se volete compiere una follia l’edizione Portable per PSP mantiene per ora prezzi abbordabili.

Bene, visto che mi sembra sia stato detto tutto, torno a prendermela con quel dannato boss del quarto stage: non sono ancora morto abbastanza. Al prossimo WWL? 😉

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